Le ragioni di una poesia

Egregio Direttore,

un fine lettore mi ha inviato una recensione del mio libro. Ora, poiché le recensioni saranno pur lette dagli scrittori (non lo so per certo: non ho mai fatto parte della categoria), ma credo siano scritte soprattutto a beneficio dei lettori, anzi dei potenziali lettori, non la vorrei tenere per me. C’è qualche rivista che potrebbe essere interessata a pubblicarla? Io penso senz’altro, almeno in teoria, considerata la qualità stilistica, culturale e umana del testo (parlo della recensione, non del mio libro). Sfortunatamente, però, sembra che la critica oggigiorno sia pressoché estinta. Insomma, come al solito Nessun Giornale la pubblicherà. E dunque… eccola qui di seguito.

Cordiali saluti e volentieri, e direi con gratitudine, cedo la parola a


Jacopo Marchisio, Le ragioni di una poesia

Emanuele Gavi è un poeta: e, in un certo senso, questa nota critica potrebbe essere già esaustiva così, non essendo la cosa troppo comune.

Chi è un poeta? Secondo noi, chi ha capito che scrivere poesia non significa soltanto andare a capo in modo differente dal normale – come capita ad alcuni che, in tal modo, scrivono in effetti una prosa dai capoversi bizzarri, talora anche piena di immagini suggestive, ma non poesia.

Perché la poesia sia davvero quel che vuole essere, a nostro giudizio servono due requisiti: il disegno formale e la concentrazione espressiva.

Il disegno formale viene da sé nelle scritture poetiche che adottano gli schemi della metrica tradizionale; ma non è meno rigoroso nel caso di versi liberi. Gli è che, in questo secondo caso, anziché obbedire a precetti esistenti a priori, l’autore si costruisce da solo (talora perfino per ogni singolo componimento) un proprio sistema normativo, in cui strofe, spazi bianchi, misura dei versi, eventuali rime, densità di figure retoriche seguono una linea decisa sul momento, forse anche in itinere; una linea dunque, a ben intendere, non più semplice ma anzi più ardua per il lettore, che deve scoprire da sé, nella risonanza del testo entro il suo animo, la logica della costruzione letteraria.

Ne Il mare e la sua canzone la presenza di un’architettura è rivelata prima di tutto dall’andamento generale della silloge, suddivisa in quattro sezioni che partono da immagini impressionistiche (Echi), per poi definirsi in un’esperienza più concreta (In barca), rivolgere lo sguardo verso una verità intuita (Vedute) e infine spingersi in alto (anzi, In verticale), verso la pacificazione catartica di un incontro fra cielo e mare innervato di composta, serena fiducia religiosa – di una religione profonda ma dal tocco leggero, come un sospiro che muova l’aria della sera.

Questa tetralogia intima, peraltro, è incorniciata fra un prologo che fin dal titolo (In ascolto) evoca l’atteggiamento consono al poeta, ma diremmo all’uomo, invitato a non chiudersi nello «spaccio di frottole» del quotidiano ma a fissare l’attenzione nella limpida bellezza del mare, mezzo privilegiato (insieme ad alcune piccole virtù debitamente elencate) per giungere alla conoscenza e alla pace dell’animo; e un epilogo, Le parole, in cui si rende, per così dire, l’onore delle armi agli strumenti a disposizione di chi scrive: come dire, l’ispirazione e l’ars. Due poli, cioè, inscindibili per una poetica di stampo idealmente classico come quella sottesa alla raccolta: che è infatti molto densa e articolata sul piano retorico, tanto quanto invece fresco, semplice, immediatamente comunicativo risulta il dettato.

Serve poi alla poesia, per dirsi poesia, ciò che abbiamo definito “concentrazione espressiva”. Cioè, secondo noi, la qualità forse ineffabile per cui, pur senza condurci lungo uno stringente percorso razionale, concatenato secondo logica non contraddittoria, il poeta riesce a persuaderci dell’efficacia della propria voce in una maniera per così dire sintetica, trovando la frase, la parola, l’espressione che inquadra un pensiero, un’idea, un sentimento in maniera così immediatamente “giusta” da avvertire subito che una luce si è fatta in noi: e spesso, con apparente paradosso, una luce che illumina, attraverso le soluzioni della scrittura, proprio noi stessi.

La poesia è, insomma, letteratura incompleta, in cui a una cura formale particolarmente costruita e sfumata (ancorché, se ben riuscita, inavvertibile al primo sguardo) si accompagna un’espressione che tanto più riesce ad affermare di sé quanto più sa convincere il lettore a riconoscersi rappresentato dalla lezione del testo, a trovare se stesso in luogo di un letterato più o meno noto. 

Tutto questo, ne Il mare e la sua canzone, c’è – o almeno noi siamo convinti di averlo trovato. E in modo tanto più degno di nota in quanto Emanuele Gavi è voce per alcuni aspetti peculiare, nel panorama della scrittura di oggi: luminoso, non oscuro; pieno di speranza, non di tormento (benché, come ovvio, tale speranza sia figlia anche di dolori, malinconie, contraddizioni che la distesa marina sa però sintetizzare in un generale amore del mondo); manifestamente legato a una tradizione che percorre tutta la storia occidentale (il retroterra di letture che si può cogliere tra le pagine è ricchissimo e molto ben interiorizzato, prima ancora che rielaborato), non vessillifero di una qualche forma di rottura; un «reazionario sognatore», secondo quanto egli dice – con un’espressione che ci ha fatto pensare alla straordinaria voce lirica di Adriano Guerrini (poeta laico, non cristiano come Gavi, ma all’insegna di un conservatorismo umanitario che non pare invece da lui troppo distante).

Avremmo noi, talora, sostenuto un pensiero diverso? Certamente. Avremmo usato altre parole, altre costruzioni? Senza dubbio. Più spesso, però, non avremmo saputo trovare di meglio. E anche nelle differenze di prospettiva che qua e là affiorano abbiamo ritrovato qualcosa di noi: che è proprio quanto, dicevamo, si chiede alla poesia.

La raccolta, peraltro, pur nella generale, limpida scorrevolezza, è anche capace di varietà: momenti quasi mistici si alternano a sprazzi di umorismo (talora spinto quasi al sarcasmo, ma sempre con un sorriso di fondo che evita ogni eccesso di durezza), estatiche contemplazioni di paesaggio a note acute e simpatetiche sulle debolezze umane. Il poeta non ha paura di esprimersi con chiarezza; ma, se tutto valuta, non per questo giudica. Gli possiamo rimproverare, occasionalmente, qualche eccesso di esclamativi: ma è solo il nostro gusto – e almeno uno lo sottoscriviamo («E il mare oggi è così bello!», p. 61: che dire di più?).

Vorremmo citare alcuni esempi di quanto il linguaggio arioso e insieme denso di questa raccolta, le sue immagini luminose, siano capaci di vero significato: toccante, per dire, la visione della barca come un altare spontaneo nel mare, dove pregare è più facile (p. 69); e di bellissimo, morbido struggimento la sua successiva metamorfosi (p. 71) in un ellenico cavallo alato, nella lirica forse più intima dell’intera silloge, che affronta in modo insieme classicissimo e originale il tema dell’eredità, di ciò che si lascia, del passaggio di testimone nel mondo, anche fra sconosciuti. Né potremmo, noi epicurei, negare un debole per le «gambe flessuose/di giovani amazzoni» (p. 38) che svolgono di nuovo come da tradizione ma anche con freschezza e grazia tutte di oggi il tema antico della femminilità attraente e insieme pericolosa, come in fondo è anche la distesa marina.

Ma troppo sarebbe da chiosare; bastava fermarsi, in effetti alla prima riga: e concludere che, al netto di ogni (molto) occasionale divergenza, Emanuele Gavi è, semplicemente, un poeta.

Jacopo Marchisio