Egregio Direttore,
oggi è il compleanno di Silvana De Mari, grande scrittrice italiana, anzi scrittore, come si definisce lei sbeffeggiando il femministicamente corretto, anzi “medico che scrive”, dato che è anche chirurgo e pure psicoterapeuta. Fra tre giorni sarà il compleanno di Clint Eastwood (ai cui film la De Mari rende omaggio nel romanzo Io mi chiamo Joseph). A maggio fiorisce il glicine e nascono i leoni.
Il suo personaggio più simile a lei è Rosalba, la sposa di Yorsh, l’ultimo elfo, la regina guerriera di Daligar, tanto amata dal suo popolo quanto temuta per le sue sfuriate: “Signora della collera e del coraggio”, come viene definita dall’autrice in quello che appare proprio come un folgorante autoritratto (L’ultima profezia del mondo degli uomini, p. 602). È lei che, incinta di due gemelli, ha guidato la carica che ha spezzato l’assedio degli Orchi, ma è anche un’eroina profondamente umana, genuinamente femminile, con le sue ansie di madre, le sue fragilità e insicurezze: invecchia, ingrassa, si sente “una persona ridicola, una regina ridicola, come sussurravano a volte i malevoli nelle vie” (Gli ultimi incantesimi, p. 168). Una regina “per caso”, che nasconde un animo contadino come la sua creatrice, la quale vive in campagna e spesso nei suoi articoli usa l’espressione “noi cafoni bifolchi” per riferirsi ironicamente a se stessa e a chi la pensa come lei: “Erano due contadini, finiti a fare i re per caso e perché non c’era nessun altro ad assumersi la responsabilità del comando. Avevano valorosamente combattuto battaglie e vinto guerre, avevano mandato avanti le loro case e i loro regni, ma pochissime di tutte le cose fatte avevano dato la gioia feroce procurata dallo svegliarsi prima ancora dell’alba e aspettarla immersi nelle prime faccende: accendere il fuoco, prendere l’acqua. Trovare un uovo, veder crescere un baccello di piselli” (ancora L’ultima profezia…, p. 568).
La vita quotidiana può mettere in ginocchio come non hanno saputo fare le battaglie, insegna la De Mari narrando la vicenda di Rosalba. Ma persone come lei sono pronte a rialzarsi, giorno dopo giorno. Come scrive di Hania, la protagonista di una delle sue saghe fantasy: “loro non si arrendevano mai, anche quando la guerra era persa, loro continuavano a battersi. Ci si batte sempre, senza fermarsi, anche quando la battaglia è persa, anche quando la guerra è finita e hanno vinto gli altri. E anche se era inutile, loro, i cavalieri, si battevano. Non ci si batteva solo per la speranza della vittoria, ci si batteva perché la decenza non fosse perduta, per morire con le armi in pugno” (Io sono Hania, pp. 173-4).
E i romanzi della De Mari insegnano a combattere quella battaglia che ognuno di noi è chiamato ad affrontare: la vita. Sono libri terapeutici, che mostrano come dalla sofferenza e dal lutto possa nascere la gioia di vivere. Si comprende allora come quella di scrittore non sia una seconda professione, per lei, ma piuttosto un’estensione e un compimento della prima: un “medico che scrive”, appunto. Una vera e propria missione.
Più ancora che per le storie avvincenti, per i drammi dei personaggi, prigionieri dei loro dilemmi morali finché non si apre loro un’altra, inaspettata possibilità, più ancora che per gli elementi fantastici, per altro dosati con estrema parsimonia, credo che i suoi lettori le siano affezionati, vorrei dire grati, soprattutto per quest’insegnamento: che la vita è bella e va affrontata con coraggio, perché siamo fatti per combattere. Forse il nostro destino non sarà la vittoria, ma ciò che conta è la dignità che sempre conquista chi affronta il combattimento. Ettore, non Achille, è l’archetipo di quest’epica moderna.
Dunque grazie di cuore, dottoressa. Con i suoi libri ci ha accompagnato in un mondo tanto lontano dal grigiore in cui sembrano consumarsi le nostre giornate, sollevandoci per qualche ora dalle nostre piccole o grandi tristezze, proprio a questo scopo: per insegnarci che anche la quotidianità può essere bellissima, può essere salvata.
Almeno idealmente, vorremmo festeggiarla con un dolce. Qualcosa di più del pane, cacio e miele in cui Rosalba trova la forza di resistere. Una torta fatta in casa, per questo suo compleanno.
“Chi sa fare una buona torta, anche se è una regina, è comunque una persona che può dare consolazione, oppure che può dare gioia. Le torte possono consolare la tristezza. Quando muore qualcuno, anche se sei una regina porta una torta fatta con le tue mani a coloro che lo amavano e ne saranno confortati. Quando qualcuno è felice e festeggia la nascita del suo bambino o lo sposalizio, se porti una torta fatta con le tue mani saprà che il tuo cuore gioisce con lui. Anche se sei una principessa, la torta quindi devi saperla fare e che sia buona” (Hania – Il Cavaliere di Luce, p. 112).
Buon compleanno, dottoressa!
Emanuele Gavi