Egregio Direttore,
recentemente ho letto in classe con i miei alunni Rosso Malpelo, la celebre novella di Giovanni Verga. Malpelo è un ragazzino che lavora in una cava di rena, il cui padre muore per il crollo di un pilastro di sostegno. La sua storia, dunque, è estremamente attuale: ci parla di sfruttamento minorile e di morti bianche. Ma soprattutto è un caso evidentissimo di capro espiatorio.
Verga ce lo mostra fin dalle prime righe, nelle quali la voce del narratore esprime i pregiudizi del popolo: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone”. Malpelo ha i capelli rossi, quindi è cattivo: è questo il ragionamento sballato che fanno gli adulti suoi colleghi nella Sicilia di secondo Ottocento. Il diverso viene condannato in quanto diverso, e gli si attribuiscono tutti i guai del mondo: “Se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui”.
In passato è accaduto spesso, che i diversi siano stati emarginati, maltrattati, uccisi, perché divenuti capri espiatori e in tal modo sfruttati, inconsciamente o consapevolmente, per ridurre i conflitti sociali. In Europa tipici capri espiatori sono stati gli ebrei, anche nella storia recente: dalla Francia dell’affare Dreyfus, ai pogrom russi, alla Germania nazista. Non sempre il fenomeno del capro espiatorio ha acquistato le dimensioni di un vero e proprio delirio di massa, per fortuna, ma non dobbiamo dimenticare che questo meccanismo psicologico perverso rimane una tentazione per ognuno di noi, per esempio nel campo della politica, o sul posto di lavoro. Può capitare persino in famiglia.
Da tempo, però, è in corso un’inversione di tendenza. Come spesso succede nella storia umana, per il principio di azione e reazione, siamo passati da un errore all’errore opposto. Abbiamo abbandonato i pregiudizi, ma non ci siamo fermati al sacrosanto rispetto del diverso. Oggi assistiamo piuttosto a un’idealizzazione del diverso, al culto della diversità. Oggi il diverso non è più cattivo, ma sempre e sicuramente buono. Da un estremo all’altro, dimenticando che in medio stat virtus.
Oggi vince Sanremo un cantante che proviene dalle periferie per il solo fatto che proviene dalle periferie. Da decenni gli Oscar e i premi dei vari festival cinematografici vengono assegnati più o meno tutti a esponenti del politicamente corretto, meglio se “diversi” o fautori dichiarati della diversità. Nel 2009 è stato conferito il premio Nobel per la pace a Barack Obama, che era stato eletto solo pochi mesi prima, nel novembre del 2008. Era pur sempre il primo presidente di colore degli Stati Uniti d’America! Bastava per un Nobel sulla fiducia.
Mi scusi, Direttore, ma se è sbagliato etichettare come malvagio Rosso Malpelo solo perché ha i capelli rossi, è sbagliato perché il colore dei capelli non conta nulla. Uno può essere buono o cattivo indipendentemente dal colore dei capelli (e della pelle). Ma se il colore dei capelli e della pelle non conta, non conta né in negativo né in positivo. Né vale a condannare, né ha senso ritenerlo un attestato di merito.
Oggi invece siamo giunti a questo paradosso, che non è tale per chi ha studiato un po’ la storia, la letteratura o l’arte, e sa che i fenomeni culturali nascono per derivazione (da fenomeni simili) o per azione-reazione (così la moda: l’anno scorso andavano le gonne corte, quest’anno vanno le gonne lunghe). Oggi siamo al paradosso per cui chi ha i capelli rossi è figo, chi non li ha rossi (penso per esempio agli adolescenti che incontro ogni giorno) se li tinge di rosso, anzi no, di blu o di verde. Perché essere dei diversi è di moda, anzi, essere dei diversi è vincente, da Sanremo agli Oscar al Nobel.
Niente di male, si dirà. Non muore nessuno, così come invece avveniva col diverso trasformato in capro espiatorio. Certamente, non muore nessuno. Però possiamo individuare due conseguenze negative.
La prima è che se si giudica un’opera d’arte, o l’operato di un uomo politico, non sulla base della qualità dell’opera, o delle conseguenze sulla società di quell’operato, ma in base invece alla diversità del personaggio, finiamo col perdere completamente ogni giudizio di merito. Si valuta chi è quell’artista o quell’uomo di governo, non ciò che produce, ciò che fa. Questo porta all’irrilevanza dell’opera e, di riflesso, a una perdita generale in termini di qualità. Se viviamo in tempi in cui la musica non è più quella di una volta, e lo stesso vale per il cinema, la pittura, la classe politica, se assistiamo a una decadenza generale in molti ambiti della vita associata e dell’espressione artistica, una delle cause è il culto del diverso, che fa a meno di giudizi di merito sull’operato di una persona, perché li trasferisce tutti sulla persona stessa. E chissenefrega se ha prodotto un capolavoro o una porcheria, se ha contribuito al bene comune o ha dimostrato soltanto la sua incompetenza.
Faccio l’esempio di Vasco Rossi, tanto per capirci. Come personaggio non mi attira. Non mi piace il suo stile, non mi piace la sua voce impastata. Però ha scritto Sally, che ritengo uno dei capolavori della canzone italiana. Certo che preferisco ascoltarla nella versione di Fiorella Mannoia, però do atto a Vasco di aver scritto un pezzo meraviglioso. Così come ha scritto il testo di …E dimmi che non vuoi morire, una delle più belle canzoni di Patty Pravo. Non mi interessa chi è Vasco Rossi, quale personaggio si è ritagliato sulla scena. Mi interessano le sue canzoni: molte non le amo, alcune mi piacciono, altre ancora le giudico straordinarie. Quello che importa (e che rimarrà nel tempo) sono le canzoni, non la personalità dell’artista, che certo ha una valenza, in primo luogo commerciale, ma di gran lunga inferiore. Vale per Vasco, Renato Zero, David Bowie… Vale in letteratura per alcolizzati e drogati come Edgar Allan Poe e Baudelaire: quello che conta davvero è l’opera, non l’autore. Non mi interessa se D’Annunzio era uno snob tronfio e vizioso: La pioggia nel pineto è un capolavoro assoluto.
Oggi invece idolatriamo dei diversi privi di talento, che non producono nulla di paragonabile (nemmeno a Vasco). Il tutto a scapito dell’arte, quella vera. Della politica, quella buona, finalizzata al bene comune. E a scapito dei meritevoli, che non hanno visibilità e finiscono per essere i veri discriminati (penso per esempio allo splendido testo del brano di Simone Cristicchi, all’ultimo Sanremo).
E qui veniamo alla seconda conseguenza. Il mito del diverso provoca un cortocircuito: se tutti a tutti i costi vogliamo fare i diversi, diventiamo tutti uguali nella diversità. Ci adeguiamo a una moda. Diversità oggi è sinonimo di conformismo. I veri diversi sono le persone normali. Quelli che non si tingono i capelli, non si fanno tatuaggi o piercing, si vestono in modo sobrio. Gli studenti che tengono fede al significato della parola e, caso strano, studiano. I giovani (e gli adulti) che non amano le feste che iniziano a mezzanotte, perché a mezzanotte Cenerentola torna a casa, non è ancora in coda per entrare al ballo. Le persone educate.
Certamente il ribellismo e il maledettismo risalgono al Decadentismo, e prima ancora al Romanticismo. Siamo tutti figli del Romanticismo, quindi dell’Ottocento. Ma questi atteggiamenti, che costituivano una sorta di difesa dalla massificazione della società industriale, sono tornati di gran moda negli anni della contestazione. Fino a diventare essi stessi una moda per la massa, pur contrapponendosi alla massa a parole.
A cinquant’anni dal Sessantotto, il culto del diverso suona sempre più falso. Il nostro immaginario è stato dominato per mezzo secolo da queste figure. Oggi ci rimangono dei diversi tutti uguali e tutti capaci di far niente. Restiamo dunque in attesa che venga alla ribalta la moda delle persone serie, delle persone normali. Ci hanno insegnato che la normalità non esiste: è falso. Noi aspettiamo fiduciosi. Confidando nel naturale avvicendamento dei fenomeni culturali: azione-reazione… Cinquant’anni sono un lasso di tempo più che sufficiente per attendersi che la ruota giri.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi