Egregio Direttore,
quando un insegnante entra in una classe nuova, prima di cominciare ad affrontare i contenuti della sua disciplina è bene che dedichi alcune lezioni a impostare la classe come desidera. Una classe impostata lavorerà in un certo modo. Per esempio io non entro mai in un’aula in disordine, se ci sono cartacce per terra o sedie fuori posto. Faccio prima rimettere tutto a posto. Solo in uno spazio ordinato si può lavorare in modo ordinato.
Per questo, poiché la forma è sostanza, bisogna iniziare dall’abbigliamento. L’insegnante deve battere e ribattere su questo tasto per le prime due o tre settimane, utilizzando tutti i metodi di cui dispone, dalle tecniche di persuasione al terrorismo psicologico (Ezechiele 25:17 funziona, ma le signore mie colleghe hanno qualche difficoltà a adottarlo).
Tra le minacce e le sanzioni è sempre meglio sanzionare ancor prima di minacciare, come quel cowboy che prima sparava, e poi chiedeva: “Chi va là?” Ma è fondamentale soprattutto motivare le norme di comportamento della scuola. Oggi come oggi bisogna spiegare ogni regola, per quanto elementare, compreso il divieto di mostrare la propria biancheria intima a tutti. In effetti non è così scontato nemmeno questo. Se fosse disdicevole, si chiede giustamente un ragazzino, perché vendono i pantaloni a vita bassa? Perché sull’elastico delle mutande c’è stampata la scritta Calvin Klein a caratteri cubitali?
Va sempre spiegato il perché delle cose. Il bravo insegnante, allora, dirà che mettere in mostra la biancheria non è solo irrispettoso verso chi magari non vuole vedere le tue mutande, o il tuo reggiseno verde fosforescente (così si nota anche in caso di blackout). Il fatto è che certi capi di abbigliamento, più consoni a una camera da letto che a un luogo di lavoro, semplicemente distraggono quanti vogliono lavorare, e quindi cercano di concentrarsi. Anzi, siamo al paradosso per cui le ragazze si coprono di più per andare a letto che per uscire di casa, perché per andare a letto indossano il pigiama, indumento molto più coprente della divisa con cui vanno in giro nei mesi caldi, e magari si recano a scuola: canottiera e pantaloncini inguinali. Una volta mi è arrivata in classe un’alunna che indossava soltanto una canotta bianca e un paio di calzoncini dello stesso colore: pareva che fosse venuta a scuola in mutande. Non parliamo delle ragazze che sembrano aver dimenticato i pantaloni a casa, perché indossano solo una maglia o una camicia che copre anche gli shorts, sempre che sotto la maglia gli shorts ci siano. Meglio non indagare, perché poi finisce denunciato il professore (maniaco!), non la minorenne scostumata.
Per prevenire le solite polemiche (oggi sono i professori che temono gli alunni) può essere utile farsi belli citando i risultati delle ultime ricerche: abiti femminili succinti non solo sono fonte di distrazione per i ragazzi (infoiati) e per le altre ragazze (competitive), ma distraggono in primis la ragazza che li indossa, la quale passa il tempo a domandarsi come apparirà il suo corpo agli occhi altrui. Lo spiega su Psychology Today il dottor Leonard Sax: l’esperto (oggi i professori contano zero, la gente si affida agli esperti) parla di self-objectification, che potremmo tradurre con “auto-reificazione”, se non fosse che risulta più chiaro il termine inglese. Tra le conseguenze per le ragazze che scambiano la scuola per uno spogliatoio Sax indica maggiori possibilità di cadere in depressione, o di adottare comportamenti autolesionistici. Con queste premesse è chiaro che, come minimo, il rendimento scolastico di una ragazza discinta sarà basso. È bene far presente tutto questo nelle prime lezioni, perché oggi non sono più solo le adolescenti ribelli che si conciano in determinate maniere, ma pure le ragazzine educate e studiose, e persino le timide. È quel degrado diffuso che chiamiamo moda.
Per avere classi disciplinate bisogna avere classi ben vestite, cioè alunni vestiti in modo dignitoso. E gli alunni si vestiranno in modo dignitoso se capiscono che la cosa interessa in primo luogo loro. Perché l’abbigliamento è un messaggio, è un biglietto da visita. È qualcosa che si dice di sé, anche senza volerlo. Lo capisce anche il più ottuso, se gli si spiegano le diverse forme di comunicazione, la più efficace delle quali è quella non verbale, senza parole, che comprende i gesti, gli sguardi, la postura, e ovviamente il modo di vestire.
Una delle obiezioni che sento spesso avanzare dalle signorine più strafottenti è che “l’abito non fa il monaco”. Da leggersi con vocetta stridula: “Ma prof.!!! L’abito non fa il monaco!!!” E lì si sono fregate con le loro mani. Perché a quel punto diventa inevitabile spiegare che i monaci sono monaci, le monache sono monache e vestono da monache, non da donne di strada. Ed ecco che anche il compagno più tardo accosta nella sua mente la bellona in erba alle belle di notte: si scatena l’ilarità generale, con enorme imbarazzo dell’incauta che si lancia in citazioni azzardate.
Sì, perché “l’abito non fa il monaco”, a rigor di termini, vuol dire l’esatto opposto. Significa che una persona ben vestita può essere un mascalzone. Non che un individuo vestito male può essere una persona meravigliosa. Un individuo vestito male può essere senz’altro una persona meravigliosa, soprattutto se è costretto dalle circostanze a presentarsi in quel modo, però il proverbio parla di monaci, non di passeggiatrici. Se ti vesti da passeggiatrice, non puoi pretendere che ti trattino come una regina.
Il guaio è che, come per le mutande firmate, la cultura in cui siamo immersi spinge queste povere ragazze a credere davvero che “nessuno mi può giudicare, nemmeno tu” (ne era convinta Caterina Caselli).
Caro Direttore, immagino abbia presente il film Pretty Woman. C’è una scena rivelatrice in proposito, ed è quella in cui Julia Roberts entra in una boutique di alta classe vestita, anzi svestita da squillo e, chissà come mai, le commesse si rifiutano di servirla e la pregano di andarsene. Hanno tutte le ragioni! Non si può entrare in una chiesa vestiti da spiaggia. Persino nel Vangelo chi non ha l’abito della festa viene cacciato fuori dalla sala delle nozze (Mt 22, 11-13). La sprovveduta non aveva immaginato la reazione sdegnata di donne abituate a servire le dame dell’alta società? Ha una conoscenza piuttosto limitata dell’implacabile giudizio femminile. Ed è legittimo che un negoziante non voglia perdere la clientela abituale per colpa di una sciamannata.
La protagonista del film avrebbe dovuto comprarsi un vestito decente ai grandi magazzini, se non ne possedeva nessuno, e poi, con quello, entrare nell’atelier. Ma Richard Gere la consola: è gentaccia falsa, pronta a inchinarsi davanti al vile denaro. “Non sono mai gentili con i clienti, sono gentili con le carte di credito”. Non è vero, perché la Roberts era entrata nel negozio con un mucchio di soldi in mano.
Vi ritorna vestita in modo impeccabile per avere la sua rivincita, e alla commessa che non l’ha riconosciuta dice sarcastica: “Salve, si ricorda di me? Io sono stata qui ieri. Mi ha detto di andarmene. Lavora a percentuale, vero? Bello sbaglio! Bello! Enorme!” La fioraia di My Fair Lady avrebbe avuto più stile, dopo la trasformazione, ma quella era la campionessa di eleganza Audrey Hepburn. Le signore del pubblico applaudono la candida ormai ex meretrice dalla lingua tagliente. E le ragazze che vedono il film pretendono poi di vestirsi come la pretty woman prima maniera anche per andare a scuola. Se poi non vedono questo film vedranno i video delle più celebri popstar. Che oggi si abbigliano e si dimenano come le pornostar.
Il film che meglio illustra il proverbio, invece, è Sister Act. Perché non ci si può fidare di una donna solo perché veste come una monaca. C’è sempre il rischio di incontrare una svitata in abito da suora.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi