Egregio Direttore,
il 14 settembre siamo tornati in classe, bardati di mascherina e igienizzati come non mai. Nel frattempo stiamo svolgendo i corsi di recupero, che nella mia scuola si tengono quasi interamente al computer in videoconferenza. Chiunque capisce che per consentire di recuperare a quanti hanno riportato insufficienze nei tre mesi di didattica a distanza non serve certo dell’altra didattica a distanza, perché è come voler sgrassare il forno utilizzando un panetto di burro. Occorrono piuttosto sane lezioni in presenza, ma soprattutto tanto, tanto studio individuale.
Vorrei ribadirlo: per arrivare al 6 in una materia bisogna mettersi a studiare, seriamente, con costanza, per un periodo che non può essere di due settimane soltanto. E lo studio si fa a casa, da soli. Non ho mai creduto nei corsi di recupero: in un pugno di lezioni supplementari non si possono certo ripetere gli argomenti svolti in otto mesi di lavoro. Per giunta, che le scuole offrano i corsi di recupero gratis è solo apparentemente una buona pratica democratica. Un aiuto per chi non può pagarsi un insegnante privato più illusorio che reale. Altrimenti i ragazzi li frequenterebbero smaniosi di imparare più dei bambini africani che fanno chilometri a piedi per recarsi a scuola.
In realtà nella maggior parte dei casi ai corsi di recupero gli studenti arrivano più svogliati che durante l’anno scolastico. E non c’è da stupirsi. L’obbligo per la scuola di organizzare il recupero delle insufficienze trasmette un messaggio terribilmente sbagliato: non è compito dell’alunno rimediare alle proprie mancanze, ma è compito della scuola. Come se le mancanze dell’alunno fossero colpa della scuola. Come se le uniche mancanze fossero per forza quelle della scuola. Un altro passo verso la deresponsabilizzazione degli adolescenti, gli adulti di domani. Io non studio ma la soluzione la deve trovare il mio professore, non io. Una delle tante dinamiche perverse che caratterizzano la scuola italiana, la scuola cosiddetta “inclusiva”. Ormai è sempre più difficile trovare un insegnante che lo dà, un votaccio. Delle insufficienze oggi si devono preoccupare più i docenti che ancora resistono e le mettono sul registro, che non gli studenti, perlomeno non quelli che hanno un genitore pronto a fare l’avvocato del figlio, quelli che riescono a mettere zizzania tra i loro insegnanti o a portare il preside dalla loro parte contro il professore.
Cosa deve fare allora la scuola? Fornire un valido insegnamento durante l’anno. Punto. Per chi ha bisogno di aiuto per recuperare ci sono le lezioni private, le scuole private, i centri di aiuto allo studio, le associazioni, le insegnanti in pensione che fanno volontariato in parrocchia… E se proprio non si può o non si vuole cacciare i denari, la soluzione migliore per ripetere gli argomenti svolti durante l’anno, e impararli una buona volta, è studiare con un compagno o una compagna, scelti ovviamente tra quelli bravi e diligenti. Se poi il compagno è carino, può darsi ci scappi pure la storia d’amore.
Ancor più di quelli svolti a scuola, i corsi di recupero online sono nient’altro che un pro forma, utile magari al ministero per dire “li abbiamo fatti” e blandire l’opinione pubblica, ma ben poco efficaci. Tra l’altro consideri, Direttore, che a questa nuova tornata di lezioni a distanza sono presenti davanti allo schermo gli alunni che avevano partecipato di meno alle attività svolte prima dell’estate, non solo in quanto assenteisti, ma perché passivi, indolenti, amorfi, recalcitranti anche solo quando si chiede loro di accendere il microfono o la fotocamera (e solo loro li possono accendere), figuriamoci nel momento in cui si tratta di ragionare un minimo e dire per esempio quanti anni sono trascorsi dal 2000 a.C. a oggi (enigma irresolubile di questi tempi, e per studenti del liceo, rendiamoci conto).
Ho già cercato di dare un’idea di cosa sia stata la didattica a distanza per gli studenti. Dovessimo tornarci, anche solo parzialmente (si accenna già a un’eventuale didattica mista), sarà un altro anno scolastico di facciata, in cui si impara poco o niente e si è tutti promossi. Oggi però vorrei raccontarLe, caro Direttore, come abbiamo vissuto noi professori i mesi di lezioni al computer.
Si sente dire spesso che per i docenti il periodo di reclusione in casa è stata una vacanza. Questo è falso. Ma non potrei nemmeno affermare che abbiamo lavorato di più, come rivendicano alcuni colleghi. A mio avviso la didattica a distanza ha allargato ancora di più la forbice tra gli insegnanti onesti e quelli disonesti: i primi hanno faticato parecchio, forse più di quanto avrebbero fatto durante un normale anno scolastico (ma su questo torno tra un attimo a partire dalla mia esperienza), i secondi hanno avuto l’occasione per volatilizzarsi una volta per tutte fino all’anno successivo, facendo meno del minimo.
Che poi, si fa presto a dire disonesti: la didattica a distanza non è mica prevista nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dei docenti. Se non è contemplata nel contratto che ha firmato, il lavoratore non può essere obbligato a fornire una certa prestazione. Inoltre tali lezioni risultano problematiche per quanto riguarda la tutela della privacy: chiunque, anche sconosciuti entrati indebitamente in videochat, può registrare la nostra immagine e le nostre parole e usarle come peggio crede. Quindi chi si è rifiutato di svolgere lezioni online ne aveva tutto il diritto, anche se c’è chi lo nega basandosi sulle indicazioni ufficiali del Consiglio dei ministri e del ministero dell’Istruzione. Certo, in una situazione di emergenza come quella che abbiamo vissuto credo fosse per noi un dovere morale, anche se non contrattuale, essere vicini ai nostri alunni e spronarli a combinare qualcosa, e a tal fine la videoconferenza era il mezzo migliore, anche se non esente da pericoli. I colleghi che non hanno svolto nemmeno un’ora di lezione a distanza credo abbiano sbagliato, anche se avevano evidentemente le loro ragioni.
E per chi si è dato anima e corpo alla didattica a distanza, nota anche come DaD, visto che amiamo tanto le sigle? Anima e corpo non è un’espressione fuori luogo, visto che ore e ore di videoconferenze coi ragazzini si sono rivelate impegnative anche dal punto di vista fisico: dalle sudate fantozziane per lo stress di una connessione problematica in tutti i sensi, all’immancabile aumento del reflusso gastroesofageo, fino alle contratture per il nervoso e la forzata immobilità (io per sciogliere la tensione muscolare andavo a correre sotto casa, avanti e indietro come una tigre in gabbia, mentre dal balcone qualcuno mi lanciava insulti perché erano i tempi della caccia agli sportivi presunti untori).
Ho accennato a ore e ore di lavoro. Per fortuna non è stato così tutti i mesi. Abbiamo penato soprattutto a marzo, quando si trattava di partire con le nuove modalità, imparando a usare strumenti mai visti e a risolvere gli inevitabili problemi tecnici, e poi tra maggio e giugno, con la chiusura delle attività didattiche. Io per esempio sono arrivato a rimanere davanti al computer per 11 ore al giorno, tra lezioni, riunioni coi colleghi, moduli da compilare, compiti da correggere etc., anche se il mio record deve essere stato quella volta che ho lavorato al pc dalle otto di mattina alle nove di sera (con le pause per cibarmi e salutare il gabinetto, ovviamente). A marzo ho dovuto anche comprare un portatile, visto che ogni membro della famiglia doveva avere la sua postazione, e l’ho fatto a mie spese poiché i 500 euro della Carta del Docente li avevo già trasformati in libri che mi sorridono promettenti dallo scaffale.
Di positivo c’è invece il fatto che ho imparato a usare i moduli di Google, Google Meet, Google Calendar, Google Classroom, Kahoot, Screencast-O-Matic e a caricare i video su YouTube. Tutti mezzi che, comunque, mi torneranno utili anche con la ripresa delle attività in presenza. Da questo punto di vista, per chi di noi si è messo a lavorare di buzzo buono, l’emergenza Covid si è trasformata in una straordinaria occasione di aggiornamento e di crescita professionale.
Il vero problema è stato la correzione dei temi. Un delirio. Ho provato tre modalità diverse, una peggio dell’altra.
Primo metodo. Avevo da correggere un pacco di compiti in classe su normali protocolli, svolti il giorno prima della chiusura definitiva. Li ho corretti con la penna rossa, al solito, e poi si è posto il problema di come mostrare le correzioni ai ragazzi. Ho fotografato le pagine di ogni protocollo, una per una, poi le griglie di valutazione compilate. Calcolando che la classe era di trenta studenti, ho scattato qualcosa come 150/180 foto stando curvo per beccare la luce giusta. Quindi ho trasferito le foto sul computer, creando delle cartelle, una per alunno, ognuna contenente le cinque o sei foto della sua verifica. Naturalmente ho confuso le foto, come era prevedibile dato che non riportavano ognuna il nome dello studente, quindi ho dovuto riordinarle e numerarle ricostruendo i temi. Infine ho inviato via e-mail a ogni singolo alunno le foto del suo tema corretto. Ore e ore di lavoro supplementare, e consideri, Direttore, che correggere un pacco di temi impegna già alcuni giorni di lavoro, e che ogni anno ho tre classi di cui correggere i temi.
E con i temi svolti a distanza, ognuno a casa propria? Mica potevo farmeli spedire a casa, dando a tutti il mio indirizzo col rischio di avere i genitori che mi aspettano fuori dal portone.
Secondo procedimento. Temi scritti in Word e caricati su Google Classroom. Controindicazioni: già non sanno scrivere in corsivo, gli ominidi del terzo millennio (glielo devo insegnare persino in terza liceo), scrivendo al computer lo dimenticano del tutto e si avviano definitivamente sul viale dell’analfabetismo di ritorno. Inoltre i temi in Word dal punto di vista psicologico sono un invito al copia e incolla da Internet. Non c’è nemmeno più la fatica di copiare a mano. Vantaggi: mi stampo i temi, li correggo a penna e… e poi però mi tocca fare le foto, le cartelle… Niente, è un po’ più veloce ma ancora troppo simile al primo sistema.
Ho provato allora una terza modalità, che mi pareva la più promettente perché la più tecnologica. Seguendo i consigli di un mio collega di area scientifica, mi sono comprato un portatile convertibile 2 in 1, ovvero un computer che permette di abbattere lo schermo sul tavolo e di scrivervi sopra con una penna digitale, che ho acquistato anch’essa. Dunque ho chiesto ai ragazzi di svolgere il tema su un normale foglio protocollo, fotografare loro le pagine del tema, unire le foto in un file PDF (sul web si trovano vari siti che permettono di farlo), e caricarmi su Classroom il risultato. Io a quel punto ho scaricato i PDF, li ho corretti con la penna digitale e li ho poi inviati agli alunni. Nessuna stampa, nessuna foto. Problema principale: altre ore al computer oltre a quelle impiegate per lezioni, riunioni, compilazione del registro… Risultato: occhi impallati, confusione mentale, intendo dire ancora più del solito, e non parliamo della schiena, già provata dalle foto della verifica precedente…
Lei mi dirà, Direttore: ma almeno i temi li hanno svolti lo stesso. Ne hanno svolti di meno. È evidente che in queste condizioni non ho potuto programmare il consueto numero di verifiche. Questo deve essere chiaro, della didattica digitale: ore e ore di lavoro per fare ben poco coi ragazzi. Si lavora di più per fare di meno, molto molto di meno.
Quanto alle riunioni coi colleghi, un cenno va fatto al Collegio docenti a distanza, con una videoconferenza del preside in collegamento con duecento insegnanti (solo noi di lettere siamo trenta). Ho tentato di fare una domanda ma mi sembrava di essere Spencer Tracy nel finale del film Il padre della sposa, quando in mezzo alla folla di invitati corre da una stanza all’altra di casa sua senza riuscire ad avvicinare la figlia prima che parta. Non c’è stato verso di porla, quella domanda: né accendendo il microfono e tentando di sovrastare la voce di altri colleghi, né scrivendola sull’affollata chat…
Quali sono stati, allora, i vantaggi della prolungata chiusura delle scuole per noi docenti? Beh, per quanto mi riguarda, oltre ai nuovi strumenti che ho imparato a usare, ho potuto dormire di più. Era dai tempi dell’università che non mi alzavo alle sette del mattino. Normalmente mi alzo tra le sei e le sei e mezza. Quella mezz’ora abbondante in più di sonno ogni giorno fa la differenza: ci si sente più forti, più vigorosi. Certo, non è che per stare in casa a fare foto ai temi servisse tutto questo vigore.
Qualche soddisfazione c’è anche stata, non si può negare. Mi sono tolto lo sfizio di dare 1 allo studente peggiore (studente per modo di dire: diciamo un assente, un assente anche in presenza, anzi a distanza). Voto 1, che nella mia scuola non è nemmeno previsto. Ma il ministero ha stabilito che la didattica a distanza andasse valutata con un voto da 1 a 10, e così non mi sono lasciato scappare l’occasione. Quando mai mi capiterà di nuovo?
Non posso poi tacere il fatto che, da febbraio a fine maggio, sono scomparsi dai radar i genitori. Nemmeno una mail. Fino a gennaio mi assillavano a ogni piè sospinto, mi cercavano fuori dall’orario di ricevimento, protestavano per i motivi più improbabili… Solo un insegnante può capire cosa ha significato non dover gestire i genitori per metà anno, quali ricadute positive per la psiche abbia avuto questa assenza inaspettata.
Per il resto, caro Direttore, se volessimo fare un bilancio, mi sento di dire che la didattica a distanza funziona ben poco, e soltanto con le classi con cui si è costruito un rapporto negli anni precedenti. Con le altre, con quelle che avevo conosciuto a settembre, non so se i miei sforzi abbiano prodotto dei frutti. Per questo spero con tutto il cuore che l’anno scolastico 2020-2021 si possa svolgere in presenza. E credo lo sperino anche i nostri ragazzi, e le famiglie.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi