Ecco cos’è stata per i ragazzi la didattica a distanza

Egregio Direttore,

per una volta l’argomento di cui tutti parlano in Italia non è la farfallina di Belen o il bunga bunga di Berlusconi, bensì – incredibile dictu – la scuola. E te credo! Domani è il primo settembre, e a tutt’oggi non è chiaro se bambini e ragazzi torneranno nelle aule il 14 (o prima ancora per i corsi di recupero, chi non è arrivato alla sufficienza in una materia), e come eventualmente dovranno tornarci. Distanziamento, mascherine, plexiglas (come scrive Salvini, o plexiglass con due esse, come vorrebbe la Azzolina? boh), e poi scuolabus, banchi a rotelle, didattica mista (cioè mezza in presenza e mezza da casa al computer): sono mesi che se ne discute. Credo allora sia opportuno fare un piccolo bilancio di quello che abbiamo vissuto durante il lockdown, sperando di tornare tutti sui banchi al più presto.

Cominciamo dagli alunni. Per gli studenti l’anno scolastico 2019-2020 è terminato venerdì 21 febbraio. Questa è la verità. L’hanno detto in molti, e non posso che confermarlo: la didattica a distanza non è scuola. I signori del ministero hanno avuto il pudore, giustamente, di non chiamarla “scuola a distanza”. Mi spiego.

Innanzitutto la scuola è molto di più di una semplice trasmissione di saperi: è una comunità e insegna a vivere in una comunità. Potremmo definire la scuola come una piccola società che costruisce la società del domani. Lo stretto rapporto che intercorre tra scuola e socialità l’hanno messo in rilievo tutti, da Dewey a Mattarella. Ovvio che a distanza, chiusi ognuno nella propria cameretta, non si hanno le occasioni di socializzazione che la scuola offre, non c’è nemmeno il contatto fisico.

In secondo luogo, lavorando coi ragazzi on line si riusciva a fare molto poco. Un gran numero di argomenti non è stato possibile affrontarli. Sto parlando di quello che un tempo si chiamava “il programma”. Molti miei colleghi storceranno il naso, ma se è vero che la scuola non è solo trasmissione dei saperi, della trasmissione dei saperi non può fare a meno. Altrimenti non è più scuola. Gli insegnanti non sono solo degli educatori, sono anche degli educatori. L’insegnante di matematica mi deve insegnare le tabelline, altrimenti ha fallito.

Io soltanto in una classe sono arrivato a terminare gli argomenti che avrei dovuto svolgere. Nelle altre ho incontrato grandissime difficoltà, dai problemi tecnici (ogni minuto andava via la connessione…), a quelli relazionali (già parlavano poco in presenza, figuriamoci a farsi riprendere da una fotocamera…), a quelli didattici. Concentriamoci su questi ultimi: come si fa a impostare al computer, a distanza, una lezione partecipata in una lingua straniera, per parlare la quale si devono già vincere delle resistenze in una situazione normale, si deve già rallentare molto rispetto a quando si parla in italiano? Io ho fatto molta fatica a lavorare sulla Divina Commedia, che tra gli argomenti che dovevo insegnare è quello più simile a una lingua straniera. Non oso immaginare cosa sia riuscito a fare chi insegna greco e latino… E pensando ai bimbetti, come si può insegnare a tenere la penna in mano a distanza? Come si fa a insegnare a scrivere?

I tempi con la didattica al computer si allungano a dismisura. Mi è capitato per esempio di metterci venti minuti a fare l’appello. Sembra incredibile, ma succede, e non solo per i ritardi o la cattiva volontà degli studenti. Per riuscire a combinare qualcosa, dunque, sembrava opportuno ricorrere alle lezioni frontali, quelle in cui l’insegnante parla per mezz’ora filata e gli studenti fanno sì con la testa. Una modalità che io evito anche in classe, perché l’attenzione degli studenti scende a zero. A distanza, come puntualmente è successo stando ai racconti dei colleghi, si correva il rischio di farsi prendere per il… naso: c’erano studenti che formalmente risultavano presenti, ma poi andavano a farsi gli affari loro in un’altra stanza (quando non uscivano di casa).

In tutto questo salta anche uno dei princìpi basilari della scuola italiana odierna: l’inclusione. È chiaro che da soli, senza l’insegnante vicino, senza il compagno di banco, senza il gruppo classe di stimolo, gli alunni con maggiori difficoltà personali (perché stranieri, portatori di handicap, affetti da disturbi specifici dell’apprendimento, o solamente meno dotati o meno autonomi della media) sono rimasti indietro rispetto alla classe che, come dicevo, è già rimasta indietro rispetto agli argomenti da svolgere.

Gli insegnanti di sostegno dovevano anch’essi presenziare alle lezioni, certo, ma riuscire, da remoto, a sostenere il ragazzo con handicap e promuovere la sua integrazione nel gruppo classe… era semplicemente impossibile. Bisogna ringraziare piuttosto quelli che si sono dedicati a lezioni individuali con il ragazzo, in un rapporto uno a uno: aiutarlo a svolgere i compiti, fargli ripetere la lezione… Così facendo, però, gli insegnanti di sostegno hanno svolto lezioni private gratuite, che sono altra cosa rispetto alle loro mansioni.

La realtà è che molti ragazzi li abbiamo persi per strada: i meno abbienti non avevano nemmeno i mezzi tecnici per connettersi alle lezioni. Se aggiungiamo gli scansafatiche, quelli con problemi in famiglia o un disagio di qualche tipo, che oggi sono davvero tanti… per tutti costoro il 2019-2020 è un anno perso. Come gli anni precedenti, probabilmente, ma questo non migliora le cose.

Da ultimo, è venuta meno una parte fondamentale dell’attività scolastica: la valutazione. Non nel senso che non sono state somministrate prove di verifica: io ho proposto (imposto) test a bizzeffe, ma su nessuno potevo fare reale affidamento. Chi mi garantiva che i ragazzi non copiassero, non li svolgessero insieme (magari trovandosi davvero insieme fisicamente, chi avrebbe potuto controllarli?), o si facessero aiutare, o mi fregassero in qualche modo? Oddio, mi dirà qualche collega, in una situazione di emergenza come quella tu pensavi alla veridicità delle valutazioni? Sì, rispondo io, perché le valutazioni servono moltissimo al discente, per aiutarlo a sviluppare il senso critico. Le valutazioni insegnano all’alunno a valutarsi. A non credersi un genio ma nemmeno una merd…, un buono a nulla. A scoprire per cosa è portato, e quali sono invece i suoi punti deboli. Quindi sono fondamentali.

Non solo. Le verifiche mettono in moto lo studente. Alzi la mano chi di noi adulti, da ragazzo, studiava la materia di quell’insegnante che non interrogava mai. Quindi ho fatto svolgere mille test, non tanto per avere dei voti, che comunque erano credibili quanto il sottoscritto come tronista, ma piuttosto per spingere i miei studenti a studiare.

A rendere le cose ancora più difficili, comunque, ci ha pensato come sempre il ministero. Anzi, devo dire che si è superato. Ai primi di aprile, cioè un mese dopo l’inizio della didattica a distanza, la Azzolina tranquillizzava studenti e famiglie: tutti promossi. Proprio quello di cui c’era bisogno (sono ironico). Perché che l’anno scolastico si dovesse concludere con un 100% di promossi era scontato. Qualunque bocciato avrebbe fatto ricorso e vinto, dato che la scuola stessa, chiudendo, lo aveva messo nell’impossibilità di seguire regolarmente le lezioni. Era scontato ma non così noto agli studenti, che sono giovani e ingenui. Gridarlo ai quattro venti a due mesi dal termine delle attività a distanza è stato davvero un gesto inqualificabile.

(Tutti promossi. E pensare che io ho un sogno, che non manco di comunicare ai miei alunni all’inizio di ogni anno scolastico: che vada avanti solo chi se lo merita. Le bizzarre utopie dei professori…)

Fin qui, caro Direttore, ho cercato di mettere in luce i lati negativi della didattica a distanza, per quanto riguarda la mancata socializzazione, la scarsa efficienza ed efficacia delle attività didattiche (si è fatto poco, e lo si è fatto male), l’impossibilità di una reale inclusione e di una valutazione attendibile.

Ma ci sarà stato qualche aspetto positivo, mi dirà. Beh, sicuramente i ragazzi hanno apprezzato molto i dieci giorni di vacanza supplementari a fine febbraio, quando siamo rimasti fermi ad aspettare Godot. Tra l’altro non era ancora scattato il lockdown, per cui uscivano con gli amici e affollavano il lungomare tranquillamente. Inoltre, se molte scuole si sono regolate come quella in cui lavoro, per cui non solo questi dieci giorni non sono stati recuperati a giugno, come era stato ipotizzato, ma le lezioni si sono dovute chiudere entro il 29 maggio (per ragioni organizzative: scrutini, esami di Stato etc.), quelle che stiamo vivendo resteranno negli annali come le vacanze estive più lunghe del secolo: tre mesi e mezzo, e nelle scuole sede di seggio, dato che a settembre ci aspettano le elezioni regionali e il referendum sul numero dei parlamentari, si toccheranno i quattro mesi. Non male, considerando che i ragazzi non mettono piede a scuola dal 21 febbraio…

Didatticamente i lati positivi bisogna cercarli col lanternino. Qualche alunno timido timido si è fatto sentire in videoconferenza. Va bene, ma chi ci garantisce che abbia vinto davvero la timidezza? Nella vita mica si può vivere dietro allo schermo di un computer. Così rischiamo di contribuire all’autoesclusione sociale e facciamo ancora i complimenti agli Hikikomori.

Io ho puntato molto sulla lettura. Poiché in videochat si riusciva a combinare ben poco, ho chiesto di leggere di più di quanto avrei fatto abitualmente. Meno grammatica ma più romanzi, anzi, poiché assegno già la lettura di un romanzo al mese, romanzi più lunghi a parità di tempo. Romanzi che di solito divido in due parti ho chiesto di leggerli in quattro settimane. Per intenderci: anziché 200 pagine al mese, 500. L’ho spiegato, e i ragazzi in gran parte hanno capito e si sono impegnati. Dovevamo stare chiusi in casa senza vedere nessuno? Almeno ne abbiamo approfittato per leggere Orgoglio e pregiudizio e Jane Eyre, oppure La storia infinita e Arduin il Rinnegato.

Ma, oltre a questo, tutto il lavoro che abbiamo fatto noi insegnanti è servito a qualcosa? La risposta è sì, e non va cercata in ambito didattico, evidentemente. La didattica a distanza è servita a dare almeno una parvenza di socialità e di apprendimento, un modesto surrogato che però in una situazione di emergenza drammatica come quella che abbiamo vissuto ha avuto un ruolo importante dal punto di vista psicologico e umano. La scuola si è attivata, insomma, non tanto per evitare ai ragazzi di perdere un anno (come si è visto, l’anno per molti è andato perduto, e per molti altri la preparazione risulterà gravemente deficitaria), quanto per salvare bambini e adolescenti dalla paura, dalla solitudine, dalla depressione. Poco è meglio di nulla, ma soprattutto quel poco è stato comunque tanto, è stato quello che potevamo dare per aiutare i giovani a superare quei giorni. Che la scuola abbia creato una parvenza di quotidianità, nelle settimane del terrore del virus, è stato importante, forse fondamentale per questa generazione.

Certo, si poteva fare meglio. Il fatto che non ci sia stato alcun coordinamento delle attività di didattica a distanza, ma che siano state lasciate alla buona volontà del singolo docente, è stata un’altra mancanza inaccettabile del ministro Azzolina e dei suoi collaboratori. Ma per capire meglio questo punto bisogna chiedersi cosa è stata la didattica a distanza per gli insegnanti, e per ora, Direttore, l’ho tediata già a sufficienza. Mi riprometto di tornarci sopra.

Cordiali saluti

Emanuele Gavi