Egregio Direttore,
finalmente ho capito come mai molte delle mie alunne sono ragazzine secche secche e raggelate. Sono cresciute a pane e ghiaccio, per colpa della Disney e del suo Frozen. Ecco perché sembrano incapaci di relazionarsi con l’altro sesso, e preferiscono flirtare tra di loro. Sa perché è crollato il mito del principe azzurro? E perché è così difficile trovare una fanciulla che creda ancora nella possibilità di incontrare un uomo perbene e vivere un matrimonio felice? Perché questo film di grande successo ha insegnato a un’intera generazione di bambine a essere diffidenti verso i maschi, avvelenando le nostre figlie con dosi massicce di propaganda femminista e omosessualista.
Frozen – Il regno di ghiaccio è un film d’animazione del 2013. Molti critici lo hanno salutato come un ritorno al passato, alle fiabe classiche con la principessa e il castello fatato. Nulla di più falso. In realtà si tratta di un cavallo di Troia ideato per promuovere le istanze del movimento lgbt, che vuole riscrivere le fiabe e indottrinare così i più piccoli (nel febbraio scorso, per esempio, due travestiti avrebbero dovuto leggere fiabe gender ai bambini, con il sostegno del Comune di Roma, ma l’evento è stato poi annullato per l’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia). Da anni la macchina della propaganda gay si concentra sulle fiabe, perché sa benissimo che i bambini assorbono come delle spugne: non per niente sono il target preferito dai pubblicitari.
Mi si obietterà che Frozen non parla esplicitamente di sessualità, e che la protagonista, Elsa, contrariamente a quanto molti speravano non si dichiara lesbica nemmeno nel secondo film, Frozen 2 – Il segreto di Arendelle, uscito nelle sale lo scorso Natale.
In realtà la saga di Frozen è ancora più insidiosa, proprio perché non dichiara, ma agisce nel campo dell’immaginario, modificandolo. Prepara il terreno per messaggi più espliciti. Ci penseranno poi film come V per Vendetta (2005) e Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (1991), a raccontare toccanti storie d’amore lesbico, e a mostrare quanto sono crudeli i maschi, peggio se conservatori o religiosi. E ho citato solo un paio di pellicole ormai divenute dei classici, destinate la prima al pubblico degli adolescenti, la seconda a quello delle signore di ogni età. I titoli, come tutti ci siamo accorti, sono ormai innumerevoli. Non bastasse il cinema, ci penseranno i romanzi di successo, il mondo della musica pop e il festival di Sanremo, programmi televisivi come Uomini che erano Donne o Ballando con i Trans etc. etc.
La verità è che la Disney si è votata anima e corpo alla causa della lobby gay. E non mi si dica che non esiste, questa lobby, dato che è riuscita a coinvolgere persino un colosso come la multinazionale di Burbank, un’azienda che da sempre si rivolge al pubblico dei più piccini. E poco per volta anche la Disney, man mano che mutano i costumi della società anche per merito o demerito suo (non dimentichiamo che Walt Disney era un massone), viene allo scoperto. Per esempio, nella versione con attori in carne e ossa della Bella e la bestia (2017), un personaggio secondario, LeTont, è gay dichiarato. Presto a fare coming out sarà direttamente il protagonista di un film. In seguito i personaggi connotati da tendenze omosex dovranno costituire la metà della popolazione di un cartone animato, con quote bisex, trans etc. Per ospitarli tutti è già pronto il Gay Pride di Disneyland: a Parigi l’hanno inaugurato nel giugno del 2019.

Che si portino i bambini alle parate gay succede anche da noi (ne avevo parlato qui e qui). Per facilitare la cosa, adesso le manifestazioni arcobaleno si organizzano direttamente nei parchi a tema per bambini. Così finalmente diverrà chiaro a tutti gli uomini e le donne di domani che il mondo non si divide in uomini e donne, ma in una serie infinita di variazioni sul tema della sessualità.
Altro obiettivo non dichiarato: la diffusione dell’omoerotismo. Con la sua propaganda martellante e pervasiva, è evidente che la minoranza gay si propone il fine non tanto di smettere di essere una minoranza discriminata: casomai è una minoranza privilegiata, onnipresente e intoccabile. Così si è espresso Platinette, che ha appunto la possibilità di dire ancora certe cose senza finire sotto processo proprio perché appartiene a quel mondo: “Noi omosessuali non abbiamo più bisogno di invocare quote e fare battaglie di categoria che affermino il diritto alla nostra diversità per mirare poi a essere trattati come gli altri. Ormai in Italia siamo ovunque, pienamente accettati. Non c’è intolleranza verso di noi. Guarda la tv, che è il metro popolare del mondo attuale: è innamorata dei gay, non c’è un programma nel quale non compariamo, spesso piazzati sopra un altarino”.
La meta da raggiungere ora, dunque, è smettere di essere una minoranza. Perché, altrimenti, vorrebbero avere accesso alle scuole? La prevenzione del bullismo è un comodo paravento: l’obiettivo reale è la promozione della condotta omosessuale.

A proposito di Frozen ho parlato di propaganda omosessualista e femminista. Come mai? Perché Elsa e Anna, le due sorelle protagoniste del film, incarnano proprio le istanze del femminismo odierno, che a sua volta è legato a doppio filo con il movimento lesbico e l’ideologia gender.
Pensiamo alle fondatrici del pensiero femminista radicale oggi dominante. Se Simone de Beauvoir (1908-1986) era bisessuale (ebbe una relazione con Jean Paul Sartre, ma, da insegnante di liceo, si dilettava a sedurre le sue studentesse), la filosofa Monique Wittig (1935-2003) e la femminista Shulamit Firestone (1945-2012) erano lesbiche, come lesbiche sono Gayle Rubin (nata nel 1949) e Judith Butler (classe 1956). La Wittig, marxista, tra le protagoniste del Sessantotto parigino, vedeva nel lesbismo, nel rifiuto di ogni complementarità sessuale, la via per la liberazione della donna. Per la Firestone emancipare le donne equivaleva a liberarle dalla gravidanza, dalla procreazione: di qui l’accento posto su una sessualità completamente libera, cioè lesbica. Gayle Rubin, di professione antropologa, ritiene che per abolire i ruoli di genere si debba cancellare il genere, e per farlo pensa siano utili anche le pratiche sado-masochiste tra donne adulte consenzienti. La filosofa Judith Butler, infine, è considerata la principale esponente dell’ideologia di genere (R. Marchesini, Uomo, donna, famiglia e “gender”, pp. 10-13).
L’ideologia gender, per intenderci, è quella dominante negli organismi dell’Onu. Vi penetra poco per volta a partire dagli anni Settanta, ma la svolta è la conferenza mondiale di Pechino del 1995, in cui si afferma una vera e propria nuova antropologia, che viene alla ribalta con parole d’ordine come “women’s empowerment” (ancora R. Marchesini, p. 14). E dagli anni Novanta del secolo scorso il cinema hollywoodiano comincia a sfornare film che vertono sull’omoerotismo, come Philadelphia (1993) o gli altri titoli che ricordavo prima, fino alla quasi totale uniformità del panorama odierno. Ormai siamo arrivati a una vera e propria imposizione di tali tematiche, pena l’esclusione dalla corsa agli Oscar. Se non è dittatura questa…
Secondo la dottrina del gender vanno separati nettamente il genere dal sesso biologico, che non avrebbero alcun legame. Non importa quello che siamo, maschi o femmine, ma quello che pensiamo di essere. I cromosomi (XY o XX), la biologia, il testosterone presente negli uomini cinquanta volte più di quanto sia presente nelle donne: tutte inezie. Madre Natura va idolatrata quando si parla di piante e animali, ma quanto all’essere umano deve essere dimenticata, cancellata, corretta e ricreata grazie alla tecnologia o alla potenza della mente. Ci si rinchiude così in un soggettivismo esasperato, che assume ora i tratti del vittimismo (buona parte dei film omosessualisti ne sono caratterizzati, come appunto Philadephia), ora quelli del titanismo, con il rifiuto di ogni limite.

Frozen è un compendio di tutto ciò. Le due protagoniste si chiamano Elsa e Anna. Sono le due principesse del regno di Arendelle: Anna, la sorella minore, è una ragazza solare, vivace, che sogna il grande amore, mentre Elsa è fredda, distaccata, vive chiusa nella sua stanza perché è dotata di un potere magico (sa creare dal nulla neve e ghiaccio) che però non è in grado di controllare, per cui rischia di mettere in pericolo se stessa e chi le sta intorno.
Il superpotere di cui ci si vergogna, e che si tenta in tutti i modi di nascondere causando catastrofi, è una chiara metafora dell’omosessualità egodistonica, cioè non accettata, concetto oggi cancellato e sostituito da quello gayamente corretto di “omofobia interiorizzata”: così per esempio nel film Animali fantastici e dove trovarli (2016), scritto dalla creatrice di Harry Potter, J.K. Rowling, anch’essa passata – guarda un po’ – alla causa lgbt, e interpretato da Eddie Redmayne, impegnato l’anno prima nella parte del transessuale protagonista di The Danish Girl.

Non c’è da stupirsi, dunque, se Elsa è stata accolta dalla comunità lgbt come una di famiglia (arcobaleno), e la canzone principale di Frozen, Let It Go (in italiano All’alba sorgerò, traduzione che sembra echeggiare il celeberrimo Nessun dorma pucciniano), è diventata un manifesto dell’orgoglio gay. Il testo italiano recita (il grassetto è mio): “Nessun ostacolo per me, perché/d’ora in poi troverò la mia vera identità”. E ancora, con chiaro riferimento alla metamorfosi: “Io lo so, sì lo so, come il Sole tramonterò/Perché poi, perché poi all’alba sorgerò/Ecco qua la tempesta che non si fermerà/Da oggi il destino appartiene a me”. Come si può notare, titanismo e rifiuto del limite.
Parrebbe la solita struttura narrativa dei film Disney, che da sempre mettono al centro il diverso e la sua difficoltà a inserirsi nella vita sociale: da Dumbo a Pinocchio, dalla sirenetta al gobbo di Notre Dame. Ma qui la situazione è differente: Elsa è una diversa che accetta la sua condizione emarginandosi dalla società, non lottando per trovarvi il suo posto. Poiché non riesce a controllare il suo potere di ghiacciare ogni cosa che venga a contatto con le sue mani, si ritira in un castello di ghiaccio lontana da tutti. Triste e solitaria, verrebbe da pensare. Macché. Si crea un vestito ultraelegante, con lo spacco, si scioglie i capelli, comincia ad ancheggiare… diventa una fatalona bionda, perfettamente a suo agio nella sua condizione di Hikikomori nordica. La scena è estremamente ambigua, e non possono non venire in mente le tante ragazzine di cui dicevo all’inizio, così fragili, chiuse, timorose di esporsi. Perché l’autoesclusione non è certo la via per diventare sicuri di sé, come invece mostra il film. Plagiate?

La sequenza della fuga di Elsa è un inno, irrealistico e pernicioso, all’autodeterminazione fasulla di chi si rinchiude in camera propria e nel proprio narcisismo. La situazione sembra non presentare alcun pericolo. Per esempio la ragazza non incontra i lupi di cui la foresta è infestata, come apprendiamo in un’altra scena che vede protagonisti Anna e Kristoff. Non si sa di cosa si nutra, nel suo castello da eschimese. Un buco di sceneggiatura? Non sarà che non si sa che cosa mangi perché non deve mangiare, non ne ha bisogno, questa nuova Elsa così affascinante, così simile alle fotomodelle anoressiche del nostro mondo?
Chi ha scritto il film avrebbe dovuto mostrarci una principessa affamata, scarmigliata, alle prese con gli animali selvaggi. Nulla di tutto ciò. L’unico problema che nasce dalla sua scelta di vita eremitica è l’inverno perenne che grava sul suo regno, e rovina l’esistenza del suo popolo. Come dire: peggio per gli altri, mentre lei diventa una star, anche se nessuno la ammirerà (tranne le giovani spettatrici del film).

Mi si dirà che poi Elsa ritrova la strada di casa grazie all’amore per sua sorella Anna. Vero. Il lettore adesso indovini di che amore si tratta. Vediamo.
È già indicativo che a salvare la regina sia l’amore per una donna, e non per un uomo. La bella addormentata usciva dalla bara di cristallo grazie al bacio del principe. A far uscire Elsa dall’enorme sepolcro di ghiaccio che si è creata è sempre un uomo, è sempre un principe, però si scopre che il principe, che faceva il cascamorto con la sorella di Elsa, Anna, è in realtà un figlio di buona donna mosso da fini ignobili. E porta via Elsa in catene: si vede che è proprio un prodotto della società patriarcale.
È interessante allora soffermarsi sui personaggi maschili del film. Sono tutti invariabilmente effeminati o deboli. Effeminato il duca di Weselton, l’ambasciatore amante del ballo, definito “un uomo coi tacchi alti”. Effeminato il gorgheggiante e gigantesco proprietario dell’emporio. Effeminato il personaggio preferito dai bambini, ovvero il pupazzo di neve Olaf, che si chiede che colore andrà sulla neve, manco fosse Enzo Miccio, e schiva schizzinoso le pozzanghere.
Gli unici uomini virili, dai tratti autenticamente maschili, sono il principe poco azzurro (e tanto carogna) e Kristoff, un montanaro che parla con la sua renna (come dire che è un idiota). Entrambi sono deboli. Kristoff, che pure dovrebbe essere abituato a cavarsela, visto che vive in quei luoghi inospitali, viene salvato dai lupi e poi dal salto nel precipizio da Anna, una ragazzina cresciuta a corte e che fino a quel momento non è mai uscita dalla reggia! Avrà fatto un corso per corrispondenza di arti marziali e Girl Power. E quel bellimbusto del principe sarà abbattuto con un pugno sempre dalla mingherlina Anna. La verosimiglianza latita ma, di nuovo, non si tratta di sviste. Sono scelte consapevoli e ideologiche: si vuole trasmettere un messaggio che ha già superato la presunta parità dei sessi. Il principe azzurro non esiste. Gli uomini fanno schifo e vogliono ingannare le ragazze, oppure sono dei mezzi scemi che vanno accuditi come dei bambini. Le femmine prendono a cazzotti i maschi, anche se sono grossi il doppio di loro.
È la visione ideologica di cui parlavo: non importa chi sei, non importa la realtà. Dunque non importano nemmeno i limiti con cui devi fare i conti, perché i limiti non esistono. È questo il femminismo dominante oggi, il femminismo lesbico. Se il principe non esiste, perché è uno stronzo, e le principesse, da buone femministe, non possono certo ricoprire il ruolo di belle addormentate, viene anche meno la possibilità di incontrare il vero amore. La scena del bacio salvifico dunque non c’è, così come nel seguito mancherà la scena del matrimonio tra Anna e Kristoff. In questo primo film al matrimonio fanno cenno soltanto i Troll, una tribù di sassi mutanti che vive nella natura selvaggia. Come dire: matrimonio? roba da età della pietra.
In Frozen le donne si salvano da sole, oppure si salvano tra loro, che in fondo è la stessa cosa (basta che gli uomini stiano alla larga). Si veda a questo proposito la complessa scena finale. Sia Elsa che Anna sono in pericolo di vita: mentre Elsa è minacciata dalla spada del principe malvagio, Anna sta morendo perché ha del ghiaccio nel cuore, ma sarà proprio lei, prima di venire raggiunta dal maschio ritardatario (oltre che ritardato) Kristoff, a salvare all’ultimo minuto sua sorella, un istante prima di diventare una statua di ghiaccio. Così facendo, però, compie un atto di vero amore, l’unica possibilità che le restava per evitare il congelamento, e spezza l’incantesimo di cui era prigioniera. Fino a quel momento tutti, lei compresa, credevano che “l’atto di vero amore” che le era stato indicato dal capo dei Troll fosse il tradizionale bacio del principe di cui era innamorata: che banalità! Siamo negli anni Dieci del ventunesimo secolo! Le donne non devono più essere salvate dagli uomini, ma si salvano da sole. Salvandosi reciprocamente salvano anche se stesse: questa è la morale del film. Elsa farà propria la lezione d’amore di Anna e abbandonerà una volta per tutte le sue paturnie, evitando a se stessa una vita di bellona in esilio e liberando il suo regno dall’inverno perenne a cui l’aveva involontariamente condannato.
Si riguardi con attenzione, questa scena del film. Il principe si è rifiutato di baciare Anna, condannandola a morire congelata, il montanaro non è arrivato in tempo, e allora è Elsa a prendere tra le mani il viso ghiacciato di Anna, in una posizione che prelude a un bacio saffico. Per ora è solo un accenno, ma quando i tempi saranno maturi (cioè tra poco, dato l’impegno della lobby gay), avremo storie d’amore arcobaleno anche tra i Puffi. D’altronde, già ora vengono raccontate fiabe gender ai bambini dell’asilo.

E non mi si dica che le due sono sorelle: da sempre Hollywood ha camuffato relazioni omosessuali presentandole come complicati rapporti di parentela o amicizie molte strette (è il caso per esempio del personaggio interpretato da Paul Newman ne La gatta sul tetto che scotta, pellicola del 1958). Ora che non c’è più bisogno di ricorrere a velate allusioni nei film destinati a un pubblico di adulti, lo si fa nei prodotti rivolti ai più piccoli.
Il film si conclude con la scelta di Elsa di aprire la reggia ai suoi sudditi: davvero originale, di questi tempi, lo slogan “porte aperte”… “Amo le porte aperte!” esclama Anna. Elsa le risponde prontamente: “Non le chiuderemo mai più”. E sì che la regina e la principessina hanno appena rischiato di morire per opera di crudeli stranieri, ma come si è visto la verosimiglianza è l’ultima delle preoccupazioni di chi ha realizzato questo film fortemente ideologico. Il tema verrà poi sviluppato nel secondo episodio, in cui dalla denuncia dell’omofobia interiorizzata e del pericolo rappresentato dal maschio si passa alla propaganda ecologista e multiculturalista (un’ottima analisi è quella di Nicola Pasqualato sul suo blog).
Caro Direttore, Lei mi dirà che tutto ciò non viene avvertito dai bambini e dalla gran parte dei genitori. Sì, ma questo non significa che il film sia innocuo, anzi. È la storia del bicchiere di vino avvelenato: chi lo beve ignaro della presenza del veleno non patisce alcuna conseguenza? Dal punto di vista di chi il veleno lo ha versato, è preferibile piuttosto che egli non ne sappia nulla.
I film modificano il nostro immaginario. E a scuola si incontrano moltissime ragazzine bionde, eleganti, magre magre, rinchiuse in se stesse, che poi “scoprono” di essere lesbiche. Andiamo avanti così: identità sessuali sempre più confuse, sempre meno matrimoni, sempre meno nascite… Siamo già sulla via dell’estinzione. Facciamo vedere Frozen ai nostri figli. Avanti tutta, come il Titanic verso quell’enorme massa di ghiaccio.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi