Festa della mamma: i nostri maggiori poeti omaggiano il genitore 1. O era il genitore 2?

Egregio Direttore,

sa cos’hanno in comune Ungaretti, Montale, Saba, Caproni, Pasolini (e chissà quanti altri…), oltre al fatto di essere i maggiori poeti del Novecento italiano? Tutti quanti hanno dedicato almeno una poesia alla loro mamma.

Cominciamo con la celebre lirica di Ungaretti, pubblicata nella raccolta Sentimento del Tempo:

La Madre
1930

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

Proseguiamo con Montale, con un componimento pubblicato in La bufera e altro, che raccoglie le poesie scritte tra il 1940 e il 1954:

A mia madre

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce dal sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto di una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’eliso
folto d’anime e voci in cui tu vivi;

e la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.

E veniamo a Saba. Tra le poesie giovanili, poi confluite nel Canzoniere, il poeta triestino scrisse la lirica intitolata A mamma. Leggiamone un estratto:

A mamma

[…]
Mamma, un tempo fu ancora – il tuo – che in ogni
dottrina la più saggia eri tenuta
da me, da me che la tua bocca muta
feci poi, con l’audacia dei miei sogni.
Tu pel fanciullo eri l’infallibile,
eri colei che non conosce errore.
L’umile tua parola nel suo cuore
si scolpiva così ch’ebbe indicibile
angoscia, quando per la prima volta,
pur come ogni altra, la tua mente folta
d’errori, avvolta nel dubbio scoperse.
[…]

In seguito, nella raccolta Cuor morituro (1925-1930), anch’essa oggi nel Canzoniere, troviamo quest’altra poesia:

Preghiera alla madre

Madre che ho fatto
soffrire
(cantava un merlo alla finestra, il giorno
abbassava, sì acuta era la pena
che morte a entrambi io m’invocavo)
madre
ieri in tomba obliata, oggi rinata
presenza,
che dal fondo dilaga quasi vena
d’acqua, cui dura forza reprimeva,
e una mano le toglie abile o incauta
l’impedimento;
presaga gioia io sento
il tuo ritorno, madre mia che ho fatto,
come un buon figlio amoroso, soffrire.

Pacificata in me ripeti antichi
moniti vani. E il tuo soggiorno un verde
giardino io penso, ove con te riprendere
può a conversare l’anima fanciulla,
inebbriarsi del tuo mesto viso,
sì che l’ali vi perda come al lume
una farfalla. È un sogno,
un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere
vorrei dove sei giunta, entrare dove
tu sei entrata
– ho tanta
gioia e tanta stanchezza! –
farmi, o madre,
come una macchia dalla terra nata,
che in sé la terra riassorbe ed annulla.

Diversi componimenti di Giorgio Caproni sono incentrati sulla figura di sua madre, Anna Picchi. Il primo in ordine cronologico fu pubblicato nel 1952 nelle Stanze della funicolare, e successivamente entrò a far parte della raccolta Il passaggio d’Enea. Si intitola L’ascensore. La lirica fu scritta a Genova, quando la donna, ammalata, era prossima a lasciare questo mondo (come si sarà notato, la morte della madre è l’evento da cui scaturiscono molte di queste poesie).

L’ascensore

Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba – d’acqua piovana.

Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e… forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.

Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro – saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia.”

E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
[…]

Ma a sua madre Caproni dedica anche i Versi livornesi, la prima sezione della raccolta Il seme del piangere (1950-1958). Leggiamone una poesia:

Preghiera

Anima mia leggera,
va’ a Livorno, ti prego.
E con la tua candela
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso Anna Picchi
è ancor viva tra i vivi.

Proprio quest’oggi torno,
deluso, da Livorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai, e il rubino
di sangue, sul serpentino
d’oro che lei portava
sul petto, dove s’appannava.

Anima mia, sii brava,
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.

Per concludere riporto una lirica di Pier Paolo Pasolini, dalla raccolta Poesia in forma di rosa (1964). Vale la pena di ascoltarla dalla voce stessa dell’autore (qui):

Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è sempre stato, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Caro Direttore, se tutti questi poeti fossero cresciuti con un genitore 1 e un genitore 2, e tali genitori fossero stati due uomini (in Italia oggi succede: ne ho scritto qui), noi non avremmo queste splendide poesie.

Dunque buona festa a tutte le mamme!

Buona festa a tutti i figli!

E che ogni figlio, cioè ogni essere umano, possa avere una mamma!

Emanuele Gavi