Egregio Direttore,
gli esami di maturità sono ormai agli sgoccioli, in tutti i sensi viste le temperature fantozzian-africane con cui si concludono, dopo una partenza al fresco (durante gli scritti ho visto addirittura ragazzi in felpa, ma forse era colpa dei sudori freddi).
La prima prova era una pesantissima torta a sette strati con tripla farcitura di storia. Probabilmente il ministro Bussetti voleva sottrarsi al bombardamento di bufale lanciate sulle pagine di Repubblica. La seconda prova risultava impreziosita da varie novità, che immagino i maturandi abbiano gradito moltissimo (checché se ne dica, gli studenti, per quanto riguarda la didattica, sono dei conservatori di ferro: per loro ogni piccola modifica alle pratiche a cui si sono abituati ai tempi delle elementari è un ostacolo insormontabile, e genera ansietà che neanche mio nonno che prendeva il Tavor…). Ma i cambiamenti che hanno subito le prove scritte sono stati in qualche modo compensati dalla loro riduzione numerica. È scomparsa infatti la terza prova, che da diplomato nel 2001 ricordo come un mero duplicato dell’orale, aggiunto per ragioni avvolte nel mistero (sadismo?). Gli scritti sono così passati da tre a due. Niente male come sconto, rispetto al ventennio precedente.
Il vero problema degli esami di quest’anno è stata la scelta del Ministero di apportare le modifiche da settembre a maggio, comunicando le novità alle scuole via via, un’informazione alla volta. Più che un anno scolastico, per le quinte il 2018-2019 è stato una caccia al tesoro. Il mio preside sembrava Peter Pan, mentre Bussetti-Capitan Uncino esortava mellifluo ad assegnare pochi compiti per le vacanze ai bimbi sperduti. In un paese civile, con un Ministero serio, i capoccia della scuola avrebbero lasciato che la quinta di quest’anno e quella dell’anno prossimo terminassero il percorso così come lo avevano cominciato, stabilendo che il Nuovissimo Esame di Stato fosse affrontato per la prima volta dai maturandi del 2021, ovvero dai ragazzi che nel settembre scorso erano iscritti alla classe terza, i quali avrebbero avuto l’intero triennio per prepararsi adeguatamente alle prove scritte, come del resto accade per tutti gli studenti, tranne che per i malcapitati di quest’anno. In un paese civile. In una scuola ben organizzata, gestita da persone di buon senso. Ma in Italia, oh dolce Italia, la gente è più sincera, la vita è più vera… Avrà ragione Finardi, per carità.
Quest’anno, caro Direttore, ho preparato per l’esame due quinte, una del liceo linguistico e un’altra dell’istituto professionale. Due classi entrambe a prevalenza femminile, il che significa sorellanza e vagonate di Ansiolin. Un tempo le donne svenivano a comando, oggi vanno di moda le crisi di panico. Per il resto le due classi erano agli antipodi: la prima piena di slancio e voglia di fare, la seconda simile alla sala delle mummie del museo egizio, o a una bella gita in macchina col freno a mano tirato per cinque anni.
I miei studenti hanno ormai terminato gli esami, e se mi permette, Direttore, vorrei vestire un’ultima volta i panni “reali e curiali” del saggio maestro (quello che fingo di essere e non sono, direbbe Gozzano), e lanciare una perla finale ai porci (o “fili de le pute”, come a volte apostrofo i miei alunni del professionale, i quali, cogliendo al volo la citazione erudita, mi rispondono complici con un “traite, traite”).
Spero appunto di non scrivere puttan… scempiaggini, a motivo dei 31 gradi che abbiamo raggiunto dentro casa. Vedremo.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi
Cari diplomati,
avete sostenuto la prova orale, avete visto i quadri con i vostri nomi stampati, l’esito dell’esame, positivo per quasi tutti, e il punteggio da voi ottenuto. Soddisfatti, delusi, accaldati, col mal di testa, nauseati dalla scuola…
Ognuno avrà la sua reazione. Io mi chiedo, però, quale sia la lezione più importante che la scuola vi lascia dentro, quella che tutti dovrete conservare nella memoria, o meglio nella vita. Il famoso metodo di studio? Le competenze? L’educazione? Forse la curiosità? L’onestà intellettuale? La passione per la lettura? O l’amore per la libertà?
Io vi propongo questa mia idea. La scuola, se è stata una scuola degna di questo nome, dignitosa, deve avervi presentato un bivio, una scelta tra due opzioni. Se ripensate a quanto avete studiato, alla letteratura, alla storia, all’arte, ma anche alle discipline scientifiche o all’ora di religione, dovrebbe esservi chiaro, ora che siete usciti da tutto questo, che le persone vivono fondamentalmente in due modi. Prendono una strada o l’altra. C’è chi vive pensando che la sua vita sia cosa sua, e chi no, chi pensa non sia cosa sua. C’è anche chi non pensa proprio, è vero, e forse sono i più, ma solitamente costoro ricadono nella prima categoria.
La vita è mia, certo, la devo vivere io, non i miei genitori, come a volte i genitori cercano di fare riducendo a zero la libertà di scelta dei figli in ogni ambito della loro esistenza. Ma la vita non è una cosa, e dunque non è una cosa che posso dire mi appartenga. In un certo senso sarebbe più corretto dire che io appartengo alla mia vita, piuttosto che la mia vita appartiene a me. La vita non è cosa mia perché non me la sono data da solo. Non l’ho comprata. Non ho neppure deciso io, di venire al mondo. Alzi la mano chi ha deciso almeno la data della sua nascita. Nessuno? Nessuno aveva fissato il giorno con un po’ di anticipo? Possiamo spostare la data della nostra festa di compleanno, se ci fa comodo, non quella del compleanno. Tutti stabiliamo la data del nostro matrimonio. Nessuno ha stabilito il giorno in cui avrebbe fatto sentire la sua voce su questa terra. E nessuno può decidere il giorno in cui morirà. Lo so, lo so: quelli che credono di capire le cose sollevano subito l’obiezione della clinica svizzera in cui ci si ricovera non per guarire, ma per non guarire mai più. Ma io non sto parlando di suicidio. Anche perché non credo che il suicidio sia davvero una scelta, e per scelta intendo una scelta libera. Ma il discorso sarebbe lungo, e io voglio dirvi un’altra cosa. Tralasciamo l’uomo sul cornicione, davanti al quale, comunque, si può materializzare improvvisamente l’ispettore Callaghan o l’agente Riggs di Arma letale. Nessuno, in condizioni normali (lasciamo perdere l’uomo sul cornicione), può sapere in anticipo, e magari stabilirlo lui, in quale momento cesserà di respirare, così come non poteva sapere in anticipo, e non aveva stabilito lui, che sarebbe nato. Dunque la mia vita non è cosa mia. È mia in un altro senso. È mia e non è mia. È mia fino a un certo punto.
Non è mia perché mi è stata data. Chi me l’ha data può essere oggetto di discussione. Secondo me è stato Dio. Voi forse, da giovani leopardiani (e spesso leopardati), preferite pensare alla natura. Oppure sono stati i nostri genitori. O gli extraterrestri, Mauro Biglino, Babbo Natale, i Puffi… Lasciamo perdere ora il chi. Mi è stata data. Io l’ho ricevuta. Su questo c’è poco da discutere. Altrimenti me la sarei data da solo (i soliti distratti rileggano il capoverso precedente). Se l’ho ricevuta e la dovrò lasciare quando magari non mi garba, non è mia.
Paradossalmente la consapevolezza che la vita non mi appartiene mi spinge a viverla come davvero mia. Cioè dando a quel “mia” un significato diverso da quello che ha in mente il bambino quando dice suo l’orsacchiotto di sua proprietà, che può fare a pezzi se ne ha voglia (rileggetevi il XXI capitolo di quel divertente manuale di istruzioni per vivere che sono le Lettere di Berlicche di C.S. Lewis). È mia proprio perché mi è stata data, mi è stata affidata. E quindi ne sono responsabile. E quindi devo farci qualcosa. E quindi non posso perdere tempo. E quindi non posso tenerla tutta per me. E quindi… (lo so, lo so: sono un fanatico dell’anafora).
Se mi è stata data, la mia vita è mia perché io la condivida con gli altri. Io l’ho ricevuta, non ne sono il creatore, il possessore, il signore supremo: perché dovrei fare l’egoista? Se dopo diciannove anni (voi) o trentasei (io) ne siamo entrati in possesso per usucapione, come nel Placito di Capua, beh, possiamo anche sentire un poco di gratitudine per i Puffi che ci hanno fatto questo regalo, e renderne partecipi anche gli altri. Condividerla. Non è la cosa più bella, quando condividi la tua vita con un amico? Con l’amica triste perché il fidanzato l’ha lasciata, alla quale tu sacrifichi un’ora di pettegolezzi sul cellulare per consolarla e sapere tutti i fatti suoi dal vivo? E pensa a quanto sarà bello dare la vita a un figlio, a una figlia, e poi consolare la figlia triste perché il fidanzato l’ha lasciata…
Chi è convinto invece che la vita sia cosa sua, è un perenne scontento (lo so che la virgola tra soggetto e verbo non si usa, ma… c’è chi può). Crederà di poter disporre a suo piacimento di tale vita, di ogni momento che gli è stato dato in sorte, e finirà col vivere una lunghissima catena di frustrazioni. Inoltre una persona che la pensa così non ha idea della sacralità della vita, cioè della sua indisponibilità, del suo essere a parte rispetto a tutte le altre realtà umane (sacro nel senso di “separato”: vedi cosa dice il vocabolario). La vita è sacra, cioè intangibile, non ci possiamo mettere le mani sopra, proprio perché nessun uomo se l’è data. Chi non ha capito questo sarà più tentato dal suicidio di chi l’ha capito. L’uomo sul cornicione è più facile che appartenga alla prima categoria di persone. Viceversa, chi capisce, magari in un momento drammatico, quando le cose vanno proprio male, che la sua vita non è cosa sua, e che tutte le nostre vite sono collegate tra loro, riesce a coglierne la splendente bellezza, pur nell’apparente disastro. Riguardate La vita è meravigliosa di Frank Capra (e chiedetevi come mai le opere di autori cristiani fanno bene al cuore, mentre quelle dei nichilisti fanno star male).
Ma se sono straconvinto che “è la mia vita, è la mia di vita” (come si afferma in questo spot dei Radicali, anche loro fan dell’anafora), è anche più facile che finisca schiavo delle dipendenze vecchie e nuove: la pornografia, cioè il sesso degradato a simulazione e brutalità, l’alcol, la droga. Le trasmissioni di Maria De Filippi. I social. La tecnologia stessa. Se credo di poter disporre a piacimento della mia vita, finirò col credere di poter disporre anche della vita altrui: di qui l’eutanasia, l’aborto, la fecondazione artificiale, l’infanticidio, i genitori che vogliono vivere la vita dei figli… Volevo essere libero, e paradossalmente mi ritrovo schiavo.
Chi crede invece che la sua vita non sia cosa sua è capace di empatia, di amore. Può decentrarsi. Può formare una famiglia e fondarla su solide basi. Può trasmettere il dono che ha ricevuto, e generare, cioè partecipare all’atto di creare la vita, una delle esperienze più straordinarie che esistano, data in sorte ogni giorno a persone di ogni nazione, di qualunque estrazione sociale, di qualsiasi livello culturale. Non bisogna essere dei Manzoni, per avere dieci figli. Bisogna esserlo per scrivere I promessi sposi: ma cos’è che dà più gioia a “questo guazzabuglio del cuore umano”? Il successo o le persone?
E voi, che vi affacciate all’età adulta, a quale delle due categorie di uomini volete appartenere? Tocca a voi scegliere.
Solo chi sa che la sua vita non è sua può sperimentare la vera felicità: dare la vita per chi si ama. E io spero che voi arriviate proprio a questa felicità. Questo è l’augurio che vorrei rivolgere a ognuno di voi. Perché nessuno si perda.
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Queste parole le ho scritte pensando ai miei diplomati del liceo. Ai miei ormai ex alunni del professionale, invece, vorrei dire le stesse cose, ma in modo stringato, con un linguaggio terra a terra, a loro più congeniale. Ecco:
Cari ragazzi, cercate di non diventare degli stronzi, ma di essere sempre delle persone serie. Scherzose ma serie. Buona estate e in bocca al lupo per la vita!
Con affetto
il vostro professore