Egregio Direttore,
oggi la Chiesa fa memoria di san Pietro Claver, il santo protettore dei neri che visse quando la negritudine di Senghor, i dilemmi di Michael Jackson e il doppio mandato di Barack Obama alla Casa Bianca erano di là da venire. Diventato sacerdote nel 1616, l’anno in cui morivano Shakespeare e Cervantes, si dedicò per quasi quarant’anni a soccorrere gli schiavi che venivano deportati in Colombia dall’Africa. Li sfamava, li vestiva, ne curava ferite e malattie. Ma soprattutto li convertiva alla vera fede: pare che abbia battezzato oltre 300.000 persone.
A leggere dell’opera di questo grande santo (ma quale santo non è stato grande?), il pensiero va facilmente alla tratta dei nuovi schiavi, come li definisce Diego Fusaro, quelli che dall’Africa vengono portati in Europa. Opportunamente papa Bergoglio ricordava, nella visita pastorale in Colombia di due anni fa: “Ancora oggi, in Colombia e nel mondo, milioni di persone sono vendute come schiavi, oppure vanno mendicando un po’ di umanità, un momento di tenerezza, prendono la via del mare o si mettono in cammino perché hanno perso tutto, a cominciare dalla loro dignità e dai loro diritti. María de Chiquinquirá e Pietro Claver ci invitano a lavorare per la dignità di tutti i nostri fratelli, specialmente per i poveri e gli scartati dalla società, per quelli che sono abbandonati, per gli emigranti, per quelli che subiscono la violenza e la tratta”.
La Chiesa deve lavorare per la dignità dei poveri, certo. Dei migranti, come no. Ce lo sentiamo ripetere ogni benedetta domenica, o meglio, ogni benedetto giorno. Ma dovrà anche convertirli a Cristo, questi migranti, se vuole davvero seguire l’esempio di san Pietro Claver. Anzi, se vuole rimanere fedele al suo mandato. Gesù infatti ha detto: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20). Battezzare e insegnare: parole messe al bando dagli attuali vertici della Chiesa. Il Papa si è più volte espresso contro quello che ama definire “proselitismo”, e in un’intervista del 2016 ammoniva, proprio a proposito di questo passo della Bibbia: “L’idea di conquista è inerente all’anima dell’islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del Vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni”.
Caro Direttore, tralasciamo la funambolica e fuorviante analogia islam-cristianesimo. Lei conosce qualcuno che si propone chissà quale conquista in nome degli ultimi versetti del Vangelo di Matteo? Non vediamo piuttosto una Chiesa schiacciata sulla dimensione orizzontale, intenta solo a dialogare con tutti (tranne Salvini e Trump e chi li vota, non sia mai!), a rispettare qualunque religione e qualunque ideologia, anche le più pericolose, ad aiutare i poveri e gli immigrati, ammesso che li aiuti davvero e non miri al business dell’accoglienza, ma guardandosi bene dal portare loro la Buona Novella, per non essere tacciata di “proselitismo”, per giunta dal suo stesso papa? Addirittura secondo certi prelati sarebbero da valutare positivamente pratiche di guarigione indigene e altre forme di religiosità pagane (così l’Instrumentum laboris del prossimo sinodo sull’Amazzonia, documento bollato come eretico dal cardinal Brandmüller): altro che convertire gli indios, dovremmo convertirci noi al panteismo e al culto della Madre Terra!
Piuttosto che alla Madre Terra, la Chiesa farebbe bene a guardare a madre Teresa, che a Calcutta i poveri li abbracciava ogni giorno, e sapeva che esistono diverse forme di povertà. Scrive Leo Maasburg, il prete che la accompagnava nei suoi viaggi, nel bellissimo Madre Teresa. Istantanee di una vita (pp. 123-4): “Ben presto tuttavia madre Teresa vide che anche nei Paesi ricchi era presente la miseria materiale a cui si affiancava un altro genere di povertà, molto meno visibile, una povertà a cui non si poteva porre rimedio con un piatto di riso. «Se una persona è sola o abbandonata», spiegava spesso, «siamo di fronte a una forma di povertà più difficile da eliminare della fame. Questa povertà si trova anche nei paesi più ricchi del mondo». Perciò, madre Teresa condusse le sue sorelle in molte città occidentali, come per esempio Roma, Londra, New York e Vienna. Non le sfuggì nemmeno, tuttavia, che accanto a queste due forme di povertà ne esisteva una terza, vale a dire la povertà spirituale, che colpisce l’uomo ancor più profondamente della fame e della solitudine e si trova nelle persone senza Dio, quelle che non possiedono la fede, anzi, che spesso non hanno nemmeno la possibilità di sentire parlare di fede o di praticarla liberamente”.
Miseria, solitudine, lontananza da Dio: queste sono le tre forme di povertà che esistono nel mondo (nel mio piccolo, mi sentirei di aggiungere l’ignoranza). Lo sanno bene i santi. Preghiamo che gli uomini di Chiesa si impegnino sempre nella lotta contro tutte e tre, e in particolare contro la terza, visto che stiamo parlando della Chiesa e non, che so, della Fao.
Cordiali saluti
Emanuele Gavi