La morte spiegata ai ragazzi

Egregio Direttore,

sono convinto che anche la persona più lontana dal nostro modo di vedere possa insegnarci qualcosa. Allo stesso modo ogni libro che leggiamo può lasciare in noi una traccia, un segno, una luce.

Certo, ci sono persone che ci hanno trasmesso un concetto appena, un’unica frase, o forse nemmeno quella, ma solo un’espressione, un modo di dire, un atteggiamento o un tic. Altre invece ci hanno aperto un mondo, sono state davvero dei maestri di vita. Così accade per i libri (e per i film): si va dalla lettura di cui conserviamo soltanto un particolare, o un’impressione, al testo verso il quale ci sentiamo debitori, che torniamo a leggere ciclicamente, certi di aver trovato una fonte inesauribile di idee, di stimoli, un tesoro prezioso di consolazioni e di incoraggiamento.

I romanzi maggiori di Silvana De Mari appartengono senza dubbio a questa seconda categoria di libri. Alludo alla saga dell’Ultimo elfo. Ma anche dalla lettura delle opere più brevi emerge ogni volta qualche spunto interessante, qualche messaggio profondo, senza contare il piacere della lettura che anche questi testi meno impegnativi sanno suscitare. Penso ad alcuni romanzi destinati a un pubblico molto giovane (l’età ideale mi pare quella dei ragazzini delle medie): Sulle ali della libertà, oppure Io mi chiamo Joseph.

Recentemente Lindau ha pubblicato Cronache di vascello del capitano Aquindici e altri racconti, una raccolta di tre testi dedicati al mondo dell’adolescenza e alle sue problematiche: i protagonisti di queste storie sono usciti dalle sicurezze dell’infanzia e si ritrovano soli, isolati, si sentono dei diversi, perché brutti, almeno secondo i canoni di bellezza odierni, o grassi, o più intelligenti della media dei loro coetanei.

Il primo racconto in realtà vede come protagonista un minuscolo alieno, il capitano Aquindici, che per una serie di vicissitudini si ritrova nel cervello di una ragazzina in coma. In questo testo la De Mari usa una delle sue tecniche preferite, adottando il punto di vista di un personaggio del tutto estraneo all’ambiente in cui si trova a operare: che sia il dolcissimo elfo che ha portato la sua autrice al successo, oppure Hania, la bambina demoniaca della saga omonima, l’orco protagonista di Arduin il Rinnegato o Joseph, giovane immigrato africano, fatti e situazioni della quotidianità vengono rappresentati da una prospettiva estranea, che li fa apparire inconsueti, bizzarri, generando spesso effetti di irresistibile comicità. È il procedimento noto come straniamento.

Il capitano Aquindici non è solo un extraterrestre, quindi “alieno” nel nostro mondo. È estraneo alla vita degli esseri umani anche perché è immortale. Ma poco per volta – e qui si trova una delle perle del libro – abbandona l’atteggiamento snob verso i “barbari” mortali, e scopre la grandezza della loro condizione. Così riflette (pp. 49-50):

“Senza la morte non era possibile la poesia, nessun tipo di poesia. Ogni istante dei barbari doveva la sua luce al fatto di essere contato, il frammento di una vita finita. Senza la morte l’unico ritmo possibile era quello insulso delle filastrocche, perché senza la morte ogni istante aveva un che di qualsiasi, di ripetibile. […] «Se fosse amico il re de l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi ch’hai pietà del nostro mal perverso», Dante: neanche la dannazione eterna fermava l’amore, quello di una donna per un uomo, oppure quello di un uomo per la conoscenza, nati non fummo per vivere come bruti. La poesia non aveva senso senza la morte. Anche la poesia terribile, quella cattiva, quella senza speranza”.

Caro Direttore, sono proprio queste le lezioni di cui i giovani hanno bisogno per salvarsi dal nichilismo. Capire che la morte dà senso alla vita, che la vita ha un senso. Imparare che la poesia e l’arte sono vie per comprendere la bellezza della vita e sì, anche della morte. Solo così ci si salva dalle pericolose distorsioni della cultura dominante, in cui la morte viene rimossa o venerata come una dea, con gli esiti tremendi di cui periodicamente ci raccontano i giornali.

Ricollocare la morte al posto che le spetta nella nostra esistenza, spiegarne il valore alle giovani generazioni è opera meritoria. È l’insegnamento di un autore caro alla De Mari, che lo cita ripetutamente nel saggio La realtà dell’orco: il neurologo, psichiatra e filosofo Viktor Frankl (1905-1997).

Frankl non ebbe vita facile. Dal 1942 al 1945 fu prigioniero in quattro campi di concentramento nazisti, tra cui Auschwitz e Dachau. Eppure in Logoterapia e analisi esistenziale (1966) Frankl scriveva:

“La morte contribuisce a dare un significato alla vita, e non a sottrarglielo. Domandiamoci che cosa accadrebbe se la nostra avventura terrena non fosse determinata nel tempo, ma fosse infinita. Se fossimo immortali in questo mondo, avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto. È proprio in considerazione della morte quale limite insuperabile alle nostre possibilità e al nostro futuro, che siamo costretti ad utilizzare il tempo della nostra vita, a non perdere le occasioni che ci vengono offerte, la cui somma ‘finita’ costituisce il consuntivo della nostra vita”.

Di questi autori, di questi messaggi abbiamo tutti bisogno, ma in modo particolare i nostri ragazzi. Per evitare le tragedie di cui siamo spesso impotenti testimoni.

Cordiali saluti

Emanuele Gavi